Negli ultimi decenni, il wushu in Italia si è trovato di fronte a una serie di interrogativi, a mio parere, cruciali:
Cosa rappresentano per i giovani le arti marziali cinesi ?
Chi è l’insegnante di wushu e quale dovrebbe essere il suo ruolo?
Quali obiettivi dovrebbero perseguire i tecnici nel formare i giovani praticanti, non solo dal punto di vista motorio, ma anche sotto il profilo dell’educazione e della crescita personale?
Il mio viaggio nel mondo giovanile del wushu è iniziato nel lontano 1991, quando ho collaborato con la professoressa Yang Li [*] in un progetto di inclusione per la comunità cinese residente nella periferia di Firenze. Da allora ho assistito a un susseguirsi di cambiamenti nella società, nelle esigenze motorie dei giovani e nelle aspettative delle famiglie.
Tuttavia, una costante è rimasta immutata a parer mio:
la mentalità dei Maestri di wushu.
Spesso, gli insegnanti di wushu si sono formati seguendo tradizioni tramandate da generazioni, rivolte agli adulti, senza interrogarsi sulle specifiche esigenze dei giovani praticanti. Molti di loro, non avendo un background specifico, potrebbero non possedere le conoscenze necessarie per adattare la disciplina al contesto di crescita dei bambini e degli adolescenti.
Questo divario tra tradizione e modernità diventa sempre più evidente nel confronto con le nuove generazioni di praticanti. I “tradizionalisti”, puri nello spirito delle arti marziali, potrebbero non essere preparati ad affrontare le sfide educative e motorie dei giovani di oggi. Al contrario, un approccio più flessibile e adattabile potrebbe essere necessario per soddisfare le esigenze di una società in continua evoluzione.
La formazione degli insegnanti di wushu dovrebbe essere rivista per includere competenze pedagogiche e conoscenze scientifiche, aggiornarsi, questo è il metodo, rimettere in discussione quel che si appreso, solo così gli insegnanti potranno acquisire gli strumenti necessari per guidare i giovani praticanti in modo efficace e responsabile.
Perché, alla fine, ciò che conta non è solo la “maestria” tecnica, ma anche la capacità di proporre programmi che delineino una pratica educativa e sportiva completa. Tale pratica dovrebbe essere divertente e sicura, e mirare a:
– Promuovere il benessere psico-fisico come un’abitudine culturale permanente;
– Favorire lo sviluppo delle capacità motorie e delle funzioni cognitive;
– Offrire opportunità di espressione, socializzazione e confronto;
– Creare momenti di partecipazione attenta, motivata e impegnata nel rispetto delle regole.
In questo modo, le arti marziali cinesi diventano non solo un’attività sportiva, ma un percorso di crescita personale e sociale, capace di arricchire la vita dei praticanti in molti ambiti.
Gli insegnanti di wushu devono essere non solo custodi della tradizione, ma anche guide attente e empatiche nel percorso di crescita dei loro allievi. È giunto il momento di abbracciare un nuovo approccio all’insegnamento delle arti marziali cinesi in Italia. Solo così potremo garantire che il wushu sia un’esperienza arricchente e formativa per i giovani praticanti, preparandoli non solo per la competizione, ma per la vita stessa.
[*] professoressa alla Beijing Sport University Wushu College; ideatrice del metodo Taijishang (il ventaglio del taiji).